Rivista semestrale della Fondazione Luigi (Gino) Pagliarani, pubblicata: dal nr 1 al nr 12 presso le Edizioni Guerini Associati dal nr 13 presso le Edizioni Franco Angeli .
Viviamo un tempo terminale. Senza che si riesca a contornarla viviamo già un’epoca successiva. Segni diversi, voci pur dissonanti, concordano nell’indicarci l’accadere di un “transito”.
Impercettibilmente, ma in modo crescente, le donne e gli uomini del nostro tempo si pongono in atteggiamenti riflessivi verso le loro azioni, cercandone un significato condivisibile, fino a fare delle loro azioni un’esperienza. Fare esperienza non conduce ad un approdo; apre all’opposto, obbligatoriamente, verso itinerari senza conclusione, segnati da tappe temporanee e da ripartenze. A una domanda seguono domande successive, dentro un regime nel quale l’”interrogazione” diventa abito mentale peculiare di quella che può essere indicata come l’essenza dell’umano oggi.
La globalizzazione ha ereditato dagli ultimi sussulti della modernità la crisi dell’idea di progresso e si rivela incapace a sua volta di indicare una direzione sostitutiva nell’immaginario comune dell’idea tramontata di un cammino lineare.
Tutto sembra dislocarsi in una realtà difficile da cogliere nella sua interezza, della quale è sempre più arduo avere una rappresentazione di ingresso e di uscita.1 In tali contingenze acquista rilevanza crescente il mondo emotivo generato nelle donne e negli uomini dalla relazione profonda con la realtà fenomenica vissuta. L’”attenzione”, nutrita dalle emozioni così generatesi, ci pone di fronte a ciò che è ancora indefinito: accoglie l’”attenzione” una “zona di mezzo”, risultato di un processo di esplorazione durante il quale la sospensione di giudizio non può essere scambiata con un’assenza.
Ci troviamo così, spesso senza averne nette percezioni, collocati in “spazi intermedi”, «come carattere costitutivo dell’esistenza»2: sono gli spazi, appunto, dell’attesa, di un confronto tra irriducibili punti di vista diversi, la cui prossimità e insieme lontananza obbligano, per ricercarne un significato proponibile, una sosta nell’”intermedietà”. Lo “spazio intermedio” è l’aspirazione a qualcosa di ancora non presente, risultato dello sforzo cognitivo di cogliere l’invisibile, concettualizzandolo, senza tuttavia rappresentarlo. Esiste di fatto un rischio latente infatti nella mancata relazione tra il mondo percepibile e quello non percepibile: l’universo tecnocratico delle forme centrato sui rapporti di forza e sul rifiuto di ogni mediazione affronta con molta difficoltà l’ascolto dei segnali deboli di cambiamento e la gestione dell’imprevisto.3
Le storie di vita sono tracce rilevanti per una comprensione più avanzata di un qualcosa di importante per il nostro ricercare.
Due spiriti illustri del ‘900 ci vengono in soccorso.
Benjamin, bambino a Berlino, è un abituale visitatore dello zoo cittadino: dei diversi animali «si fa un’idea della loro natura e del loro carattere».4 E in particolare è attratto da una lontra, scontrosa abitante del suo recinto, in realtà una grotta oscura davanti alla quale Benjamin sostava paziente «in un’attesa senza fine, davanti a questa impenetrabile, nera profondità, con la speranza di scoprire in qualche dove la lontra».5 La gioia del piccolo Benjamin era legata meno di quanto si possa pensare a vedere finalmente la lontra quanto al tempo, anche protratto a lungo dell’attesa. Quel suo attendere paziente davanti alla grata della grotta oscura rimanda il bambino alla struggente dolcezza dei giorni pieni di pioggia e delle lunghe attese trascorse alla finestra e alle voci dolci che gli parlano di futuro sussurrandogli tenere ninnananne in quel tempo sospeso del dormiveglia. Tra la veglia cosciente e il sonno profondo il dormiveglia si espande come “spazio intermedio”, fonte e deposito di una comunicazione creativa del tutto peculiare, capace di donarci un senso celato delle cose.
Verso sera, prima dell’ora della cena comunitaria, le attività nei vari studi personali all’interno della grande “officina” del Bauhaus cessavano e tutto diventava silenzioso. Lo studio di Lothar Schreyer, Direttore del Laboratorio Teatrale del Bauhaus, era immediatamente sotto a quello di Paul Klee e, quando finalmente ogni rumore nello studio di Klee sembra essere cessato, Schreyer decide di salire di un piano per una breve visita al suo illustre collega. I due chiacchierano amabilmente, scambiandosi ironia e affettuosità, discutendo con cenni per lo più vaghi le prospettive della loro arte rispetto alla grande tradizione classica. Klee sostiene di non varcare i limiti né del concetto né della composizione figurativa. Dichiara in questo passaggio, e in questo passaggio si accalora, come la sua arte rimanga nel campo del naturale, non ovviamente come lo conosce il naturalismo, ma nell’ambito delle possibilità naturali: «io faccio quadri di una natura potenziale». Il suo interlocutore conviene con lui interrogandolo tuttavia su come riesca a sfuggire a quello che definisce “il pericolo della fantasia” e Klee risponde che
«Si sono aperti e si aprono per noi mondi che appartengono anche alla natura, ma nei quali non tutti gli uomini possono penetrare con uno sguardo, che è forse proprio solo dei bambini, dei pazzi, dei primitivi. Io intendo, per così dire, il regno dei non nati e dei morti, il regno di ciò che può venire e vorrebbe venire, ma non deve venire, un “mondo intermedio”. Lo chiamo di nuovo “mondo intermedio” perché io lo sento tra i mondi percettibili esteriormente ai nostri sensi e posso afferrarlo intimamente in modo da poterlo proiettare verso l’esterno in forme equivalenti»6
L’interesse crescente del pensiero filosofico e della psicanalisi contemporanei verso gli artefatti artistici ci consegna a uno “spazio intermedio”, sostenendo come valicare i confini del figurativismo abbia il significato di ampliare le prospettive dell’opera con contenuti meno ovvi e prevedibili e più rari degli approdi del naturalismo7. Lontani da questa ipotesi c’è il rischio di non trovare mai niente che non si sappia già. Farsi sorprendere dall’”attenzione” ha il significato di affrontare ciò che accade con mente sgombra da preconcetti.
Tutto questo ci connette con Winnicott e le sue ricerche sull’illusione, sui valori cognitivi di quest’ultima rispetto alla realtà; l’illusione indicata, in altre parole, da Winnicott come «stato intermedio tra l’incapacità e la crescente capacità del bambino di riconoscere e accettare la realtà.»8
L’illusione secondo Winnicott, confinata riduttivamente all’universo artistico e religioso, viene amabilmente concessa al mondo dell’infanzia; diventa etichetta di follia quando nell’età adulta una donna o un uomo osino porre richieste eccessive sulla base della loro illusione impegnando la credulità dei loro interlocutori a condividere un universo di illusioni che non è il loro.9
Gli “spazi intermedi” originano dalla creatività: ogni realtà creata dalle donne e dagli uomini trova origine in un’altra realtà, che non viene riprodotta come tale ma imitata, generando un successivo “spazio intermedio”. Lo “spazio intermedio” viene continuamente superato per accedere a un nuovo “spazio intermedio” che non potrà mai essere colmato: una catena senza fine.
Il tema del numero viene introdotto dalla riedizione di alcuni testi di Luigi Pagliarani, da fonti diverse, un’antologia attraverso la quale si può percepire come la categoria della “terziarietà” sia stata sempre presente nella ricerca del fondatore della psicosocioanalisi.
Il saggio di Silvano Tagliagambe conduce il lettore dall’articolazione interna del mondo interiore lungo l’”Asse Io-Sé” nel pensiero di Jung, al rapporto tra il sacrificio e l’asse Io-Sé e a una sua rilettura fino all’approdo dell’esplorazione del “mondo intermedio”. In tale realtà topologica il confine come linea è al tempo stesso demarcazione e collegamento: il suo accesso è “evento originario” e fondamentale della vita psichica, la quale presuppone ed esige per il suo sviluppo regolare e normale una divisione che perciò unifichi.
Gli elementi fondativi della problematica degli “spazi intermedi” proposti da Tagliagambe vengono riflettuti da un vertice psicanalitico dai contributi di Giuseppe Civitarese e Carla Weber.
La psicoanalisi - sottolinea Giuseppe Civitarese - si occupa da sempre specificamente di processi intermedi, citati da Freud come das Zwischenreich, il regno di mezzo; un “qualcosa tra”: l’in-between o l’half-way region delle traduzioni inglesi. Lungo questa traccia “il paradigma dell’intermedietà” può essere definito come assolutamente centrale in psicoanalisi. Tale paradigma viene illustrato a partire dalla teoria del campo analitico, la declinazione, nell’opinione dell’autore, più recente, coerente e radicale della prospettiva dello “spazio intermedio”.
Il contributo di Carla Weber origina dall’affermazione relativa alla natura ambigua delle risonanze relazionali, irriducibili una all’altra. L’accettazione di tale prospettiva esige nelle competenze distintive del terapeuta l’affinamento della capacità di contenimento dell’ambiguità. Il sostenere il contatto con l’ignoto e l’indifferenziato attiva un’area intermedia, nutrimento delle prospettive di cambiamento: al di là dell’analisi dei vincoli e delle possibilità di utilizzo della potenzialità generativa dell’ambiguità nella relazione psicoterapeutica, il contributo esplora la natura stessa dell’ipotesi dello “spazio intermedio” nel setting e la sua natura ambigua.
L’autobiografia, come ogni narrazione, conduce per mano i lettori e li colloca con forte accelerazione al centro della tematica di interesse. Alfonso M. Iacono racconta una sua esperienza di paziente afflitto da patologie minaccianti la sua capacità motoria e attraverso una narrazione genialmente capace di confondere vissuti, esperienze e teorie, fa riflettere i lettori sulla circostanza che nella riabilitazione neurocognitiva il rapporto tra patologia e apprendimento sia caratterizzato dalla storia della costruzione in uno “spazio intermedio”, attraverso la capacità auto organizzativa del corpo di approntare sostituzioni naturali prima che artificiali.
Gli esperimenti mentali giocano un ruolo cruciale nella ricerca filosofica e scientifica e hanno forti implicazioni operative nella formazione e nell’apprendimento. Il contributo di Luca Mori è fondato sull’ipotesi che gli esperimenti mentali facilitino l’accesso a un “terzo spazio”, intermedio, capace di far percepire relazioni emozionali e nessi cognitivi che da prospettive diverse possono non essere colti.
Il film di Joseph Losey, “The Go-Between”, un classico della cinematografia occidentale negli anni ‘70, è indicato da sempre da ricercatori di discipline diverse come un materiale di straordinaria rilevanza per un aiuto a una piena comprensione delle prospettive dello “spazio intermedio”. Bruno Fornara, scrive, da critico cinematografico, un commento trasversale al film di Losey capace di contenere insieme l’analisi rigorosa dell’artefatto cinematografico e le prospettive di lettura palesi e nascoste riferibili all’universo cognitivo ed affettivo degli “spazi intermedi”.
La scrittura surreale di Roberto Provenzali ritorna in questo numero della rivista con una ballata ritmata da una parte sulla registrazione dei legittimi lamenti che si alzano da chi opera nel precariato contemporaneo e dall’altra dall’esigenza di non ignorare gli “intervalli”, perché «occorre esercitarci a stare nel mezzo»: si finirebbe infatti «per pagare a caro prezzo il sogno della vita senza il male».
Anche questo numero ospita infine le Immagini a cura di Cristiano Cassani, la rubrica Recensioni a cura di Carla Weber e inaugura la rubrica Eventi, a cura di Dario Forti, dedicata alla cronaca di un’esperienza di un Grande Gruppo Analitico, commentata dal responsabile della rubrica e da Andrea Basili.
1 Rimando per queste concettualizzazioni al lavoro di Sergio Vitale (2005) La dimora della lontananza, Bergamo, Moretti & Vitali; in particolare la premessa e il cap. 7, Il senso dell’attesa. La conoscenza dell’opera di Sergio Vitale mi è venuta da un’indicazione di Dario D’Incerti che ringrazio.
2 Vitale, op. cit., pag. 13.
3 Queste concettualizzazioni sono state affrontate da Silvano Tagliagambe in un recente seminario di Cinelogos dedicato alla tematica “Spazi intermedi”, svoltosi a Milano presso Ariele nel novembre del 2011. Si veda anche Silvano Tagliagambe (2006), Come leggere Florenskij, Milano: Bompiani; Silvano Tagliagambe, (2008), Lo spazio intermedio, Milano: Egea - Università Bocconi.
4 Walter Benjamin (1959), Infanzia berlinese, Torino: Einaudi, 1973, pag. 46.
5 Ivi, pag. 47.
6 Paul Klee, (1920). Confessione creatrice e altri scritti. Milano: Abscondita, 2004, pag. 68 (le sottolineature sono mie: nda).
7 Si rimanda a questo proposito a recenti ricerche di A.M. Iacono: A.M.Iacono, (2005), Gli universi di significato e i mondi intermedi, in A.G. Gargani, A.M. Iacono, Mondi intermedi e complessità, Pisa: ETS; e a A.M. Iacono, (2010), L’illusione e il sostituto, Milano, Bruno Mondadori.
8 D.W. Winnicott, (1971), Gioco e realtà, Roma: Armando, (1993), pag. 26.
9 Pavel Florenskij, il pensatore russo che nella prima metà del ‘900 ha sfidato la cultura europea con la prospettiva degli spazi intermedi, afferma a questo proposito: «che si conservi pure, se si vuole, la parola illusione, ma senza la sfumatura denigratoria verso il valore conoscitivo di ciò a cui la parola illusione viene applicata»: Pavel Florenskij (1923), Lo spazio e il tempo dell’arte. Milano: Adelphi, 1995, pag. 207.